Nell’ambito della collaborazione tra Teatro Stabile del Veneto, Fondazione Teatri e Umanesimo Latino S.p.A. di Treviso ed Arteven - Circuito Teatrale Regionale, è in atto da qualche anno una riproposta di lavori d’autori veneti del Novecento, che sinora ha visto in produzione sette spettacoli, più meno conosciuti al grande pubblico: la popolarissima commedia musicale “Nina, no far la stupida” di Arturo Rossato e Gian Capo, il poco noto eppure validissimo “Quando al paese mezogiorno sona” di Eugenio Ferdinando Palmieri, “La base de tuto” e “Serenissima”, due lavori ‘minori’ di Giacinto Gallina, “Tramonto” di Renato Simoni e più recentemente “Se no i xe mati, no li volemo” di Gino Rocca.
Per la stagione 2013/2014 è stato ancora scelto un lavoro di Rocca, tra i più amati del repertorio veneto, nel quale irresistibili trovate comiche ed una caustica ironia vanno pari passo: vale a dire quel “Sior Tita paron” presentato per la prima volta nel 1928, e da sempre frequentatissimo anche dalle compagnie amatoriali. Son passati quasi cent’anni, ma come tutti i classici questo testo non ha perduto nulla del suo mordente satirico: un anziano possidente – un vecio ‘paròn’, detto alla veneta – dopo una lunga malattia lascia inaspettatamnente tutta la sua eredità, villa e terreni compresi, al fido servitore Tita dalla mansione di ‘velada’ (questo il nome in dialetto della divisa di maggiordomo) con la condizione però che gli altri dipendenti – la cuoca Carlotta, il litigioso giardiniere Nane, l’avinazzato cocchiere Serafin, la giovane cameriera Teresina, il tuttofare Stropolo - restino in casa al loro posto, mantenuti vita natural durante. Tutti o quasi hanno da tempo provveduto a farsi un gruzzoletto nascosto, Tita compreso: chi facendo la cresta sulle spese, chi vendendo per proprio conto i frutti dell’orto, chi affamando i cavalli di casa pur comprando fieno e biada in quantità, anche questi da rivendere di nascosto. L’inaspettato lascito desta però una feroce invidia, ed una livida ostilità nei confronti di Tita che non viene accettatocome nuovo padrone per cui, come scrive Lorenzo Maragoni nelle sue note di regia, «la lotta intorno all'improvvisa ricchezza è un gioco senza esclusione di colpi, in cui continuamente si fanno e disfano alleanze, si mente, si tradisce, si cerca di difendere con ogni mezzo le proprie piccole conquiste, il proprio angolo di territorio, senza potersi più fidare di nessuno». Questo almeno sino a quando Tita, visto che tutti hanno smesso di svolgere il proprio ruolo e non gli si prepara neppure da mangiare - insomma, dopo aver preso atto che il piccolo mondo della villa padronale è finito tutto sottosopra –un po’ per furbizia, un po’ per disperazione riesce a rovesciare la situazione. Cede infatti, a sua volta, ai compagni l’intera eredità, e sceglie di ritornare servitore; naturalmente, con la condizione d’essere d’ora in poi da loro mantenuto. Divenuto in tal modo padrone ‘pro quota’, ognuno dovrebbe riprendere tranquillo le proprie mansioni, ma non è così. Nascono invece nuove invidie e feroci litigi, sempre per questioni di denaro, e nella casa cala un clima rissoso, da tutti contro tutti, mentre Tita si tiene prudentemente discosto, leggendo placido il suo quotidiano. Almeno sino a quando prima uno, poi l’altro, ognuno agendo di nascosto dagli altri, tutti scelgono d’affidare a Tita la cura della propria parte; e gli consegnano man mano la procura ad agire in proprio conto, contando sulla sua amicizia e sulla sua abilità d’amministratore. A questo punto si torna allo status quo, e Tita ridiviene padrone della situazione, pronto a dettare le sue regole ma soprattutto a vivere finalmente in pace, affermando che «E’ loro i paroni», i padroni saranno quegli altri, ma ora ora «comando mi».
Si ride molto, in questo perfetto meccanismo teatrale di Gino Rocca, travolgente piéce comica dalla sicura presa sullo spettatore. Però si ride amaro, ma molto molto amaro, specie in questa rilettura di Lorenzo Maragoni che trasporta la vicenda un po’ verso i giorni nostri, e che punta più sui contrasti di carattere che sulle trovate e sulle battute comiche. Affrontati solitamente da attori più o meno avanti con gli anni, in linea con i suggerimenti del testo (salvo i giovani Stropolo e Teresina, gli altri - cioè Tita, Nane, Serafin e Carlotta – erano da lungo tempo al servizio del ‘vecio paròn’), in questa nuova produzione i due atti di Rocca sono messi nelle mani di una compagnia tutta di giovani attori – ma altrettanto giovane è anche il regista - chiamati a confrontarsi con un’ormai lunga tradizione interpretativa.
Con quali risultati? Non sempre equilibrati, direi, dato che pur sono complessivamente tutti bravi, in questa commedia si grida più che parlare, con atteggiamento ossessivo, accompagnati da una moderna colonna sonora (Calicanto, Vinicio Capossela, Los Massadores, Herman Medrano, Samuele Bersani ed il Coro della SAT) alquanto invasiva ed assordante; e dato che la recitazione viene affidata da Maragoni più ai gesti, ai contrasti, in un gioco corale dal ritmo chiassoso – vedi la passerella con la quale, ad inizio della seconda parte, i neo ricchi fanno il loro ingresso in un defilé con abiti sgargianti e sgraziati - piuttosto che puntare sull’espressività del singolo interprete, e sul confronto tra i diversi caratteri. Insomma, scarseggia quell’ammiccamento ironico e bonario, quell’atteggiamento oraziano da ’castigat ridendo mores’ che sottiene tutto il testo di Gino Rocca; e si perde per strada non poco dei complessi rapporti relazionali e dello spessore umano conferito ai suoi personaggi. Giacomo Rossetto è il serafico e intelligente Tita; Davide Dolores l’irascibile ortolano/giardiniere Nane ‘raicio’; Andrea Tonin Serafin ‘ciocio’, stalliere perennemente in stato etilico; la bravissima Laura Serena la cuoca Carlotta (quella di «mi con i paroni, mai!»); Anna Tringali l’ingenua Teresina; Francesco Folena Comini il giovane Stropolo; Anna De Franceschi la siora Catina; Riccardo Masci ricopre i due ruoli del cascamorto Achille e del severo gastaldo Isepo.
La scenografia di Alberto Nonnato prevede una porta centrale, contornata da una serie di ante d’armadio (o porte tout-court) che si fanno fluorescenti e luminose secondo la personalità del momentaneo occupante; i costumi di Lauretta Salvagnin donano un tocco di rozza stravaganza ai neo ricchi, che nel primo atto ci erano stati presentati in trasandati abiti da lavoro; ben congegnate le aggressive luci di Andrea Patron.
Teatro